Le nuove pensioni e l'effetto pandemia

La Legge di Bilancio 2021 potrebbe mantenere “Opzione donna” e “Ape sociale”, in attesa di nuove regole di uscita dal mondo del lavoro.

A cura di Gianni Tel

Ogni anno, quando si riprende a parlare dei contenuti della Legge di Bilancio, spunta l’intenzione di mettere mano alla revisione del nostro sistema pensionistico. Infatti, dopo l’introduzione della “Riforma Dini” del 1995, fino all’attuale “Quota 100” del 2019, transitando per la “Riforma Fornero” del 2012, non sono mancati molti provvedimenti di revisioni che hanno modificato in peggio l’impianto previdenziale del nostro Paese. In questo momento non sono poche le “vie di uscita” che la normativa ha previsto. Si tratta di “Quota 100”, “Opzione donna”, “Lavori usuranti”, “Ape sociale e volontaria”, “Precoci” e “Isopensione”.

Già da settembre si è cominciato a riproporre se e come intervenire nuovamente sulle pensioni e nei “palazzi di Governo” si avanza l’ipotesi di non rifinanziare “Quota 100” a partire dal 2022, considerando che il costo appare quest’anno in forte rialzo, così come evidenziato dalla Ragioneria Generale dello Stato (il 17% del Pil, circa 300 miliardi di euro, pari a circa il 35% della spesa pubblica complessiva).

Il “ritornello” è sempre lo stesso: come controllare il costo previdenziale e, nel contempo, garantire una giusta pensione agli assicurati. Tutte le misure adottate hanno sempre interessato il sistema dal lato dei costi, al fine di riavvicinare le uscite alle entrate. Per questo motivo alcune generazioni hanno ottenuto condizioni agevolate, altre invece, meno fortunate, sono state penalizzate.

Adesso, con la presentazione della Legge di Bilancio 2021, si sta parlando di mantenere per il prossimo anno sia “Opzione donna” che “Ape sociale”, in attesa di prevedere nel 2021, terminato l’esperimento “Quota 100”, nuove regole di uscita dal mondo del lavoro (si parla di spostare a 63 anni l’età pensionabile per i lavori più gravosi e, a 64 anni, per tutti gli altri con importi meno consistenti, facendo leva sull’anzianità contributiva e sui coefficienti di calcolo legati alla speranza di vita).

Ma cerchiamo di spiegarci meglio e vediamo ora quale potrebbe essere l’effetto Covid-19 sulle pensioni del futuro.

In Italia, oggi, è in vigore il sistema a ripartizione (con i contributi versati dai lavoratori e dai datori di lavoro in un anno vengono pagate le pensioni dello stesso anno). Con la riforma pensionistica del 1995 (Riforma Dini) si è passati al calcolo contributivo, che tiene conto della somma di tutti i contributi versati nella vita lavorativa, rivalutati in proporzione alla crescita del Pil (Prodotto Interno Lordo), che consente di ottenere il “montante contributivo”.

Ovviamente, per trasformare il “montante” in un assegno mensile, esso va diviso per il numero dei mesi dati dalla speranza di vita media all’età effettiva di pensionamento. Poi, da quando il primo assegno viene versato al pensionato, la pensione viene rivalutata in base all’inflazione.

L’obiettivo del sistema introdotto dal Governo “Dini” è stato quello di agganciare il calcolo della pensione iniziale all’andamento dell’economia e dare maggiore stabilità alle finanze pubbliche: se il Pil cresce, aumentano i contributi e l’Inps può sopportare una spesa previdenziale più alta. Se il Pil scende, entrano meno soldi nelle casse dell’Istituto e, in questo caso, paga pensioni più leggere. Ciò, però, si traduce in un danno per i lavoratori, i quali si ritrovano con meno potere d’acquisto.

Nonostante il meccanismo sia stato corretto nel 2008, tale sistema non protegge i lavoratori, i contributi non vengono cioè rivalutati abbastanza per tenere il passo con l’inflazione.

Il risultato è che, dal 2010 al 2020, i contributi previdenziali hanno perso circa il 5% di valore reale. Mentre, dal 1996, si stima che i contributi versati abbiano ottenuto una rivalutazione reale che copre solo un quarto dell’inflazione.

In altre parole, il “capitale” accumulato negli anni da cui il lavoratore ottiene la pensione si è svalutato. Anche se queste sforbiciate sembrano piccole variazioni, va ricordato che si riflettono sull’intera vita residua dei pensionati, il cui assegno si adegua, perdipiù solo parzialmente, all’inflazione.

Va sottolineato poi, che nella continua ricerca di un dinamico ma difficile equilibrio tra contributi e prestazioni, tra lavoratori e pensionati, non si è tenuto conto della valutazione sui cambiamenti che sarebbero avvenuti successivamente nel mercato del lavoro e cioè: 1) la prorompente “irruzione” della tecnologia; 2) il lavoro precario e a tempo determinato; 3) il lavoro sommerso. Tutte situazioni che incidono negativamente sull’occupazione provocando interruzioni di lavoro o, addirittura, la scomparsa di posizioni lavorative.

Tutto ciò produce effetti negativi sui redditi da lavoro e dunque sulla possibilità da parte del singolo lavoratore di costruirsi un adeguato “montante contributivo”.

Quindi ben vengano equi e ragionevoli provvedimenti sul sistema di calcolo, età di pensione, speranza di vita, rivalutazione del “montante contributivo”, insieme al recupero del potere di acquisito delle pensioni e alla riduzione del cuneo fiscale non previsto per i pensionati ma solo per i lavoratori dipendenti.

Bisogna dunque passare a politiche economiche e fiscali comuni, con caratteristiche espansive che privilegino il lavoro, il welfare, l’economia della conoscenza e la sostenibilità ambientale e sociale.

Bisogna uscire da questa crisi cogliendo l’occasione del Recovery Fund, per ripensare al nostro modello di sviluppo, rendendolo sostenibile ed equo, regolando la finanza, rafforzando il ruolo dello Stato e delle politiche pubbliche, investendo nell’economia verde, facendo del welfare e della sanità pubblica gli architravi del nostro modello sociale.

 

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(Tratto da 50&Più, Novembre 2020, pagg. 90/91. Tutti i diritti riservati)

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